UNA PAROLA NON È MAI SOLO UNA PAROLA

UNA PAROLA NON È MAI SOLO UNA PAROLA 
“La lingua è la caratteristica nucleare dell’essere umano”
N. Chomsky

    La parola (detta, scritta, pensata) è prerogativa umana, è ciò che ci differenzia da altre specie viventi, che comunicano ma non parlano.

    Le neuroscienze affermano che il linguaggio è impresso nel sistema cerebrale e rappresenta il tessuto della nostra mente: il linguaggio è perciò l’organo formativo del pensiero.

    Le cose infatti, pur esistendo nella realtà, iniziano a esistere nella nostra mente nel momento in cui le nominiamo. Assegnare un nome alle cose permette di renderle pensabili. 

    Nominare, infatti, conferisce concretezza ed è quindi un passaggio fondamentale per sancire l’essenza, per dare struttura, per stabilire forma e confini e altresì per rendere mentalmente comprensibile ciò che si sperimenta in sé e si incontra oltre sé. 

    L’assenza di parole per riferirsi a un fenomeno, un’emozione, una situazione rende impossibile accedere mentalmente a quell’evento e tale mancanza impedisce sia l’interiorizzazione che la modificazione dello stesso: limita perciò il nostro margine di comprensione e di intervento.

    In questo senso ci risulta chiara l’importanza vitale che assume la verbalizzazione emotiva con l* bambin*; verbalizzare le emozioni rappresenta un atto costruttivo che ha la finalità di render consapevoli emotivamente, competenti socialmente ed empatic*.

    Ma ancora, dato che la lingua contemporaneamente rappresenta e produce realtà, in quanto ogni parola ha effetti sia sulla rappresentazione mentale che sul piano reale, da un punto di vista educativo, proporre un linguaggio vario, ampio e fluido significa non solo offrire l’immagine di un mondo multisfaccettato, ma contemporaneamente costruirlo e promuoverlo.


    Questo meccanismo di rappresentazione e di promozione del reale sottende perciò un doppio movimento: le persone e le cose esistono se le riconosciamo verbalmente e, al medesimo tempo, cambiano attraverso le parole con cui le descriviamo.

    Infatti, ciò che scegliamo di nominare, esattamente come l’etichetta che decidiamo di utilizzare possono condizionare la percezione, il valore, il senso.
    Ed è in quest’ottica che risulta necessario porre attenzione alla differenza che intercorre tra l’atto denotativo e quello connotativo.

    Denotare è descrivere senza giudizio.

    Connotare, al contrario, porta con sé giudizi e pregiudizi

    Sia ben chiaro, la lingua non è discriminante per definizione, viene resa tale attraverso l’utilizzo che se ne fa. Essa infatti riverbera, tra le altre cose, anche il sessismo, il razzismo, l’omobitransfobia, l’abilismo, il classismo, etc. intrinseci alla società. 

    “I limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo” L. Wittengstein

    Alcune parole non essendo socialmente e culturalmente neutre‘, perché cartina al tornasole di una struttura sociale non paritaria e non ‘neutra’, sono caricate psicoemotivamente e questo ha effetto tanto su chi le pronuncia, quanto su chi le ascolta.

    Ecco perché non possiamo ancorarci alle intenzioni personali e dobbiamo, al contrario, agire e pensare come collettività sociale responsabile. Urge attuare un doppio movimento: di allontanamento dai “ma non intendevo questo”/“ma stavo scherzando” e di avvicinamento e ascolto delle voci delle persone violentemente colpite da cultura e linguaggio. 

    La lingua è cosa viva e nell’essere viva è necessariamente mutevole.

    imparare

    Eppure i cambiamenti sono lenti; quelli linguistici, nello specifico, sono più lenti di quelli sociali e se la lingua non pareggia il cambiamento sociale, rischia di rallentarlo a sua volta.

    Le modificazioni, pur avvenendo, sono temute o non vengono ben accolte da alcune persone, spesso incapaci di cogliere i limiti e i pericoli di un linguaggio che, frequentemente, è usato in modo discriminante e problematico.

    La lingua è un costrutto socio-culturale.

    Tutt* appartengono a una cultura e tutt* hanno una cultura, eppure solo la cultura dell’élite (del* privilegiat*) ha la capacità di imporre le sue costruzioni di significato all’interno della cultura stessa, insomma poche persone hanno l’immenso potere di POTER DEFINIRE il mondo.

    Dove per ‘definire’ si intende la possibilità di convincere che la narrazione proposta sia l’unica, sia la sola verità. Infatti, chi stabilisce cosa è giusto e cosa è vero è chi detiene il potere: “la classe che detiene i mezzi della produzione materiale, ha anche il controllo sui mezzi della produzione intellettuale” M. Wittig

    L’inglese, ad esempio, si è imposto come lingua globale perché la sua diffusione su larga scala è esito di politiche coloniali. Se la storia avesse seguito un flusso diverso possiamo ipotizzare che la lingua utilizzata come lingua ‘base’ del mondo sarebbe un’altra.

    Allo stesso modo l’uomo, in quanto essere umano di genere maschile, si è imposto sul femminile e sul non binarismo di genere fin da tempi remoti. L’uomo, come maschio, occupando spazi pubblici, spazi di potere, spazi di parola, ha sancito la neutralità del maschile.
    La rappresentazione del maschile come neutro nasce e contemporaneamente alimenta l’idea della maschilità come obiettiva, naturale e, di conseguenza, le altre esistenze sono connotate partendo da questo centro: il maschile è, il femminile (e il resto) si forma.

    Ma la lingua italiana non prevede alcun ‘neutro’, perciò questa operazione di universalizzazione del genere maschile, moltiplicandosi in vari ambiti e ripetendosi nel tempo, produce oscuramento e invisibilità; in altre parole nasconde più del cinquanta per cento dell’umanità: non solo le donne, anche tutte quelle persone che non si riconoscono con la classe dominante. 

    Nel mondo caratterizzato dal binarismo della modernità, l’altro dell’Uno è privato della sua pienezza ontologica e ridotto a compiere la funzione di alter. Questo ruolo dell’Altro (femminile, non bianco, coloniale, marginale, sottosviluppato, deficitario) diventa la condizione di possibilità dell’esistenza dell’Uno” R. Segato.

    Ciò significa che una piccola porzione di umanità che può coincidere con la classe degli uomini (specificatamente bianchi, eterosessuali, abili, occidentali, ricchi, etc.) si è appropriata dell’universalità, imponendosi come punto di riferimento e come unica verità.

    La lingua diventa così un luogo inospitale per alcun*, all’interno della quale si può avvertire un senso di estraneità: un luogo in cui la propria esistenza non viene riconosciuta.

    Le parole hanno infatti la capacità di mettere in luce e, viceversa, di invisibilizzare alcune individualità.
    Individualità che, se non nominate, vengono oscurate e rese inaccessibili all’immaginario collettivo, ovvero vengono eliminate dalla mente umana, pur esistendo nella realtà: “è nell’essere interpellata entro i termini del linguaggio che una determinata esistenza sociale diviene possibile” J. Butler.

    Il linguaggio contiene dentro di sé l’inconscio collettivo e trasmette l’ordine simbolico nel quale viviamo e lo riproduce ben al di là della coscienza dei singoli.

    Si potrebbe affermare che la lingua esprime il nostro pensiero rispetto alla realtà e veicola eventuali preconcetti, d’altro canto è anche in grado di condizionare l’interpretazione della realtà, inducendo una certa visione del mondo e rafforzando gli stereotipi.

    In questo senso perciò:

    • la richiesta di utilizzare il femminile come il nostro dizionario prevede,
    • rivedere alcune forme comunicative esito di un’asimmetria di potere, rinunciando agli slur (usare uno slur significa insultare un intero gruppo di persone: “il vero target non è tanto la singola persona a cui si indirizza lo slur, quanto la categoria a cui essa appartiene o a cui si ritiene essa appartenga. Gli slur possono essere razzisti, sessisti, omofobi, ecc. Il termine si potrebbe rendere in italiano come ‘insulto’, ‘offesa’, ma temo che la traduzione non renderebbe completamente l’idea” F. Faloppa),
    • introdurre nuove e diverse forme per nominare e rivolgersi alle persone,
    • lasciare alle categorie marginalizzate la possibilità di autodefinirsi e di autorappresentarsi,

    non significa né negare il maschile, né rifiutare in toto ciò che già c’è, significa aggiungere, ampliare la rappresentatività e rendere giustizia anche alle altre individualità che, per l’appunto, esistono ma non vengono contemplate linguisticamente.

    “Ci sono parole di troppo e altre che mancano” Elena Loewenthal

    Tutto questo, ad alcun* può sembrare irrilevante, ma non lo è né dal punto di vista dell’esattezza grammaticale e dell’informazione, né da quello simbolico del riconoscimento e dell’esistenza.

    “Esistere non è più sufficiente per esistere” B. Vasallo.

    Non disponiamo di un linguaggio perfetto e nemmeno di un linguaggio che possa rappresentare tutt* e, probabilmente, non ci sarà mai, eppure possiamo fare il possibile per perfezionarlo, iniziando ad esempio a nominare ciò che esiste in modo adeguato e provando a chiamare le persone come desiderano essere chiamate.
    Questi movimenti non sono una questione di gentilezza o di correttezza politica, sono manifestazione di umanità e di un profondo riconoscimento del valore di ogni singola esistenza.

    Quando si propongono la revisione e l’eliminazione di alcune parole, l’introduzione di nuovi termini e la possibilità di nuove forme linguistiche (ad esempio l’asterisco, lo schwa, le “x”, etc.) non si tenta di risolvere, bensì di aggiungere, di ampliare le possibilità comunicative e, attraverso queste diverse versioni, di rappresentare il disagio degli individui che non si riconoscono nelle parole attuali.

    Parlare è un atto potente che implica la necessità di fare attenzione, mettere un pensiero, anticipare le conseguenze, schivare i pericoli, modificare in corsa, indietreggiare e, in caso, riparare. Insomma, bisogna essere raffinat* e mai, mai superficiali, ché una parola non è mai solo una parola.

    Da tempo si propone di utilizzare un ‘linguaggio inclusivo’, ma, se ci ragioniamo un attimo, ci accorgiamo che l’inclusività presenta un limite, perché parlare di linguaggio inclusivo rischia di ricalcare l’asimmetria di potere che stiamo cercando di problematizzare: chi include e cosa include?

    L’inclusione maschera un movimento di concessione, che di nuovo fa capo alla superiorità di chi agisce un movimento inclusivo e l’inferiorità di chi subisce l’inclusione.

    Ecco perché sarebbe forse più opportuno prediligere il termine ‘ampio‘ (su proposta di V. Gheno) per riferirsi al linguaggio, dove per ampiezza si presuppone la coesistenza delle differenze tutte e la capacità di contemplare linguisticamente l’esistente, di abbracciare con le parole la complessità, di mostrare le molteplici sfaccettature del mondo. 

    La lingua è arma e strumento, limite e potenzialità, gabbia e libertà: può ferire (pensiamo al caso della violenza verbale) ma anche curare (come può avvenire nella psicoterapia), può chiudere ma anche aprire, può limitare oppure ampliare le possibilità.

    Le parole sono importanti, il modo in cui le scegliamo, le usiamo, le carichiamo di significato, beh, decisamente di più.

    “La lingua è potere e potere significa responsabilità” K. Gümüsay

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