La consapevolezza di sè passa per la salute mentale

La consapevolezza di sè passa per la salute mentale: ci hai mai pensato? Ma cosa vuol dire?

Maggio è un mese speciale dedicato alla consapevolezza della salute mentale, un’occasione per porre l’attenzione su un aspetto fondamentale della nostra vita che spesso trascuriamo.

In un mondo che si muove a un ritmo frenetico, è essenziale ricordare l’importanza di prendersi cura della propria mente tanto quanto del proprio corpo.

La salute mentale non riguarda solo la mancanza di disturbi o malattie, ma abbraccia uno stato di benessere emotivo, psicologico e sociale. È come un delicato equilibrio che dipende da vari fattori: dalle relazioni interpersonali alla gestione dello stress, dall’autostima alla capacità di affrontare le sfide quotidiane.

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Tuttavia, spesso sottovalutiamo i segnali che il nostro cervello ci invia. Stress, ansia, depressione possono insinuarsi silenziosamente nella nostra vita, minando la nostra felicità e il nostro benessere. È importante riconoscere e affrontare questi problemi con la stessa serietà con cui affronteremmo una malattia fisica.

Proprio per questo, oggi, vi racconterò una storia: la storia di una persona che ha accolto i segnali del cervello e del corpo, ha chiesto aiuto e ha imparato ed interiorizzato un nuovo approccio.

Storia di Alberto

Alberto è un direttore commerciale dell’area nord-est. Ha circa 45 anni e ricopre questo ruolo da un bel po’ di anni ormai. La sua esperienza è solida, certificata e riconosciuta dal mercato. Sa di sapere e si destreggia molto bene nelle dinamiche lavorative.

Tuttavia, mi dice Alberto, non riesce a fare lo step che vorrebbe: diventare amministratore delegato. Fa colloqui da anni ormai. Arriva anche quasi alla fine del processo di selezione ma, poi, non si concretizza.

Questo lo sta stressando non poco. Si sente non all’altezza. Si sente destinato a questo ruolo per sempre. Si sente di non riuscire più a camminare, bloccato in una sabbia mobile asfissiante. Cosa posso fare per riuscire nel mio obiettivo? – mi chiede quasi con le lacrime agli occhi.

Nel nostro percorso, la prima cosa che facciamo è riportare l’obiettivo sotto la sua responsabilità – se non ci sono posizioni aperte, se un candidato è più bravo o meritevole, se ci sono condizioni che per l’azienda non sono accettabili…beh, c’è ben poco da fare.

Ma con Alberto cerchiamo di capire una cosa importante: c’è qualcosa che, a tuo avviso, sbagli tu? Comunichi male tu? Trasmetti male tu?

So che ti sembrano domande scontate e ovvie, ma ti assicuro che analizzando una serie di colloqui che ha fatto, in poche sessioni arriviamo al nocciolo della questione: didatticamente arriva molto preparato ma ormai non gli arde il fuoco dentro, non ci crede davvero, gli occhi non brillano.

E secondo te, non se ne accorge chi è dall’altra parte?

Certo che si, mi risponde.

Quello è diventato il lavoro del nostro percorso di coaching, riscoprire il suo “Why”.

Nelle varie sessioni ho visto in Alberto riaccendersi la fiamma. Siamo ritornati al motivo che lo spinge all’azione, al senso che da al lavoro, alla mission che ha.

Oltre alla sua motivazione, questo percorso gli ha fatto capire un’altra cosa importante: la sua prossima azienda non sarà una qualsiasi azienda purché lui faccia l’AD. Ma sarà un’azienda in cui crede, per cui si sente di lottare, che – appunto – gli faccia brillare gli occhi.

Alberto ha rifiutato una proposta perché non in linea con la sua mission. Lavora di nuovo con passione e continua a fare colloqui: si è reso conto che l’obiettivo non è a qualsiasi costo perché a pagarne le conseguenze è lui stesso.

Si fermerà quando per lui ne varrà la pena, fino ad allora esplorerà il why, con gratitutidine per ciò che ha.

Altrimenti tra 6 mesi sono punto e a capo – mi ha detto.

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