Prima di entrare nel merito della questione del perché la violenza di genere sia così capillare e del motivo per cui essa riguardi tutti, tutte, tutt*, è doveroso fare una premessa: donne e uomini sono diversi. Punto. Esattamente con lo sono io da voi, come ognun* lo è da chiunque altr*.
Il problema però non sta nella diversità (non esiste nessun essere vivente che sia uguale a un altro), la questione si posiziona, più che altro, su come viene gestita tale diversità (a livello psicologico, sociale, politico, economico, concreto, legale..). Nel caso della violenza di genere, essa posa le sua fondamenta sul presupposto implicito che la diversità tra uomini e donne faccia capo a una differenza valoriale. Ovvero la convinzione che i primi siano “meglio”, “valgano di più” delle seconde (il gender pay gap ne è un esempio concreto).
In questo scenario, ciò che si sta, con difficoltà, cercando di raggiungere perciò non è l’uguaglianza, bensì la parità. Parità significa che ognun* (a prescindere dalle caratteristiche), per il solo fatto che esista, abbia stesso valore e stessi diritti. Ma, ad oggi, all’interno delle diversità tutte e delle dicotomie (uomini/donne, bianchi/neri, eterossessuali/omosessuali, cisgender/transgender, ricchi/poveri, abili/disabili ecc.) vi sono delle disparità, che compromettono la qualità di vita di alcune categorie e ne favoriscono altre.
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I privilegi che hanno alcune persone non sono una colpa, ma rappresentano una responsabilità. Una responsabilità di categoria.
Abbiamo detto che il genere, di per sé, non sancisce una diversità di valori, ma gli stereotipi e le aspettative costruite sul genere ci anticipano e condizionano la percezione che abbiamo delle persone appartenenti all’una o all’altra categoria. La donna viene, più o meno esplicitamente, considerata proprietà dell’uomo (“la mia donna”, “o con me o con nessun altro”, “se non puoi essere mia non sarai di nessuno”) e l’uomo ne può disporre a suo piacimento. Gli uomini nascono nella convinzione che tutto gli sia dovuto e che “non devono chiedere mai”. Le donne, al contrario, vengono educate all’esistere in funzione dell’uomo (trovare un marito, non rimanere sola e farsi bella per piacere all’uomo sono solo alcuni esempi). In questo scenario educativo, almeno una volta nella vita gli uomini commettono una discriminazione/un’oppressione di genere; non sono mostri, sono solo figli di una società che li educa così.
La storia del maschile è legata alla gerarchia e al potere. Agli uomini viene insegnato a pretendere, a essere forti, ad avere, a possedere, a dominare, ad arrabbiarsi, a occupare spazio, a urlare, a essere forti e coraggiosi (“non fare la femminuccia”, “non piangere, gli uomini non piangono”, “puoi ottenere quello che vuoi”, “sii forte”, “ti fai trattare così da una donna?” ecc.). Alle donne, al contrario, al cedere, al concedere, al piacere e compiacere l’altro, alla cura, all’essere belle, all’essere delicate e fragili, a essere passive, a tacere, all’occupare il minor spazio possibile, al fare posto (“siediti composta”, “come sei carina”, “queste parole non stanno bene in bocca a una donna”, “non esagerare”, “se ti comporti così non ti vorrà nessuno”, “zitta” ecc.).
In queste narrazioni trova terreno fertile la “cultura dello stupro”, ovvero l’assetto sociale in cui la discriminazione e la violenza di genere sono normalizzate. Il linguaggio misogino e la riduzione del corpo femminile a mero oggetto sessuale insegnano a tutti, tutte e tutt* che il sesso, agli uomini, sia dovuto e che, di conseguenza, le donne glielo debbano concedere (“me l’ha data”/“gliela devo dare”). Si perde, in questo meccanismo, la dimensione relazionale e di condivisione: nel catcalling e nello stupro, ad esempio, è evidentissima l’assenza della relazione e di un volere condiviso. Come è evidente, altresì, che, proprio mancando la dimensione umana, non sia il sesso, bensì il potere che sottende questi comportamenti. Tu, donna, diventi un oggetto (un culo, un corpo, una bocca, un seno, una vagina) e smetti di essere persona, ciò mi autorizza a fare di te ciò che voglio senza tenere conto del tuo desiderio.
Ma, andando ancora più a fondo, e provando anche a inserire la dimensione sessuale o, meglio, della pretesa sessuale, riusciamo a comprenderla bene se ragioniamo rispetto alla rabbia che colpisce gli uomini di fronte al rifiuto e alla mancata soddisfazione sessuale (“le ho offerto la cena e quella troia non me l’ha nemmeno data”, “dai, oh, sono stato carino, che ti costa darmela?”). [l’estremizzazione del concetto di sesso come diritto dell’uomo è rappresentato dal movimento incel – involuntary celibate, a cui appartengono coloro che incolpano le donne per la mancanza di una vita sessuale e che considerano il sesso come dovuto, arrivando ad affermare che una donna che rifiuta di fare sesso con un uomo stia violando un diritto umano]
Il sesso è qualcosa che gli uomini pretendono, che vogliono a loro misura, secondo i loro tempi e desideri. Eppure, faticano ancora a concepire che possa essere vissuto liberamente dalle donne. (es. le donne che hanno una vita sessuale attiva sono tutte “puttane” o ancora, un uomo per offendere un altro uomo insulta le donne della sua vita “figlio di puttana”). L’esposizione continua a questi messaggi impliciti ci assuefa e ci porta a banalizzare, minimizzare e normalizzare la violenza. Al punto, talvolta, di non riuscire più nemmeno a definirla come tale finendo per chiamarla: “complimenti”, “scherzi”, “goliardia”, “amore”, “gelosia”, “raptus”..
Questo meccanismo colpisce donne e uomini. Gli uomini, perciò, non sono “mostri”, “deviati”, “criminali”, “malati”, “mele marce” e le donne, di contro, non sono “stupide”, “idiote”, “sceme”; siamo persone a cui manca un vocabolario condiviso, una definizione comune, un’educazione al rispetto, alla sessualità, ai corpi, ai confini, al consenso, alla relazione. Le donne sono programmate a pensare che le molestie siano normali e che prima o poi capiteranno (al punto che se non capitano o se non sono “molto gravi” tenderanno a considerarsi “fortunate”, cioè a pensare “per lo meno non sono stata stuprata” / “sono ancora viva”) e gli uomini sono programmati a non pensare a ciò che fanno, nel mantra de “la carne è carne”, “non rispondo dei miei impulsi sessuali”; ma queste sono solo mere giustificazioni, perché il pensiero e la razionalità sono esattamente ciò che ci dovrebbe differenziare gli uomini dagli animali.
Il linguaggio è potere, ma se non possediamo le parole per descrivere un fenomeno, un’emozione, una situazione, non se ne può parlare e non ci si può riferire a quella cosa, perciò sarà impossibile: riconoscerla, prevenirla, cambiarla. Finché le cose non vengono chiamate col loro nome, non ne abbiamo reale consapevolezza.
Ma, quindi: Siamo in grado di riconoscere la violenza? Riusciamo a definirla in modo corretto? Dire “no” / “non mi va” è sufficiente? Abbiamo abbastanza strumenti per ribellarci alla violenza anche se riusciamo a riconoscerla o il rischio che possa andare peggio ci blocca e ci porta a tollerare in silenzio? Denunciare è sufficiente?
La credibilità è uno strumento di sopravvivenza, ma viviamo in una società che minimizza e normalizza ciò che accade alle donne e che insegna loro a stare zitte (“posso dirlo?” / “non mi crederanno mai”), che inibisce, che porta a dubitare di loro stesse (“forse sto esagerando” / “magari ho frainteso”), a vergognarsi e a sentirsi responsabili (“forse è colpa mia” / “non dovevo andare, fare, vestirmi così, ubriacarmi…”), ad avere paura (“e se lo dico e poi si vendica?” / “e se poi è peggio?”). Moltissime donne che hanno subito abusi e violenze NON denunciano e/o non ne parlano, perché la voce delle donne viene considerata poco credibile.
Le donne non vengono ascoltate, non vengono credute, la voce delle donne viene sempre messa in discussione. Al punto che, quando una donna arriva a denunciare, a dire, a parlare si innesca un meccanismo dubitante: “ma sarà vero?” / “lo fa per soldi” / “prima bisogna capire se è successo realmente o se l’è inventato” (eppure gli stessi interrogativi non avvengono rispetto a nessun altro crimine: avete mai sentito dire queste frasi a qualcun* che denuncia una rapina?!). In questo scenario di sfiducia, di insicurezza, di poca protezione e tutela, ecco che il silenzio (“faccio finta di niente e vado oltre”) e la minimizzazione (“forse avrò capito male” / “è uno scherzo”) possono allora diventare una forma di autodifesa personale, per evitare di subire ancora violenza (per esempio da parte delle forze dell’ordine/di altr* che mettono in discussione la testimonianza) o una vittimizzazione secondaria (ovvero il venir considerata responsabile di quanto accaduto).
La violenza non ha razza, non ha classe, non ha religione, non ha nazionalità ma ha un genere. La violenza è autoritaria e parte dal presupposto: io ho il diritto di controllarti, ho il potere su di te “tu me lo devi”.
NESSUNA DONNA È AL SICURO. Nessuna.
Tutte le donne hanno sperimentato, sperimentano, sperimenteranno una qualche forma di violenza, chè la violenza ha mille sfaccettature (slut shaming, linguaggio sessista, gender pay gap, vittimizazzione secondaria, catcalling, stalking, condivisione non consensuale di materiale intimo, violenza economica, coercizione riproduttiva, togliere il preservativo durante un rapporto sessuale senza dirlo alla partner, violenza psicologica e domestica, stupro, femminicidio). Così come ogni donna ha avuto, ha, avrà paura di essere stuprata, uccisa, picchiata, colpita… e questa paura rende la popolazione femminile subordinata alla popolazione maschile, perché chi ci stupra, uccide, picchia, colpisce è, spessissimo, un uomo. Non tutti gli uomini sono misogini e violenti, ma la violenza ha un genere specifico.
La paura che possa succedere qualcosa CONDIZIONA il modo di vivere, agire, vestirsi, comportarsi, muoversi, esplorare, sperimentare, osare… Se ci riflettiamo un attimo, ogni donna potrà trovare nella sua storia di vita almeno una situazione nella quale si sia censurata, trattenuta, ci abbia pensato 100 volte, si sia fermata, abbia cambiato idea..
In conclusione, per contrastare la violenza di genere non è necessario limitarsi punire (chè purtroppo la letteratura dimostra che la pena -nemmeno la pena di morte- è un deterrente ai reati), ma è fondamentale decostruire ed educare. I bambini, i ragazzi, gli uomini al rispetto, al consenso, al limite, alla tolleranza del no, all’accettazione del rifiuto, all’emotività, alla parità, a una nuova mascolinità, al rifiuto degli stereotipi, al ragionare sulle conseguenze, all’umanità.. Le bambine, le ragazze, le donne al valore di sé, all’importanza dei confini, all’imparare a dire no, al sentirsi pari, alla libertà, all’indipendenza, alla separatezza, alla consapevolezza.. Tutte, tutti e tutt* al definire le cose col nome corretto. C’è urgenza di un linguaggio condiviso e di definizioni chiare. Sono ben consapevole che questo elaborato sia parziale, manchevole, frammentato e che dà per scontato alcuni concetti, ma mi auguro di essere stata in grado di offrire una primissima panoramica della complessità che sottende la violenza di genere.
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