MA IO, COME STO?

Ma io, come sto?

Mi ricordo quei giorni,

l’odore, la pena il senso di solitudine e di incertezza, e la paura, costante che tutto potesse finire in un istante.

Oggi non ricordo quanto è durato, mi sembra un tempo infinito, in cui ci si dimenticava di mangiare, di bere e anche di dormire, fino a quando era il fisico a crollare e tu con lui.

Ricordo gli sguardi, profondi penetranti con i pazienti e i colleghi che nascondevano un “chissà se ti rivedo”, e gli altri, struggenti, che dicevano: “sei l’ultimo sguardo che incontrerò in questa vita”

Ricordo che per molto tempo dopo, quando tutto sembrava finito, o almeno sembrava essersi attenuata, rimaneva addosso, la forza devastante di quel terribile e invisibile assalitore.

Poi d’un tratto tutto pare quietarsi, se ne va come è arrivato, all’improvviso, mentre ancora ti chiedi: “ma è successo d’avvero?”

Le persone tornano, rientrano nei presidi e nelle RSA ma niente è più come prima.

Chi ha incarichi manageriali, di dirigenza e direzione chiede: “quanti posti vuoti abbiamo”

Tra colleghi si creano profonde spaccature tra chi ha avuto il Covid e ha rischiato di morire, chi è rimasto in struttura e ha rischiato di morire, e chi spaventato ha avuto cura degli affetti che rischiavano di morire. Nonostante fossimo tutti figli dello stesso padre, tutti abbiamo scelto cosa proteggere, le persone, noi o i nostri cari, tutti ci siamo divisi. Ognuno supponendo che solo il proprio fosse il dolore più grande il motivo più nobile. Una massa di persone spaventate, disunite e sole. 

E l’unica frase che ti sentivi ripetere era: quanto posti vuoti abbiamo?” oppure, nella migliore delle ipotesi: “possiamo ancora prendere qualcuno?”

Non ricordo e non conosco nessuno cui sia stato chiesto: “tu come stai? 

Se desideri ascoltare l’intera intervista vai sul nostro canale YouTube: “nel salotto di Antsy”

Ma come stai davvero? In quanti pezzi si è rotto il tuo cuore? Sei arrabbiato? Hai ancora voglia di incontrare qualcuno? Come sta la tua famiglia? Come ti fa stare rientrare in reparto adesso?

Nessuno!

Oltre al fatto che quello che allora era diventata una necessità, fare più ore di quelle contrattuali per coprire le assenze e garantire comunque, livello di cura adeguati, è diventato normalità, e lo è ancora.

Mi capita ancora, di incontrare persone travolte e avvolte in questo circolo vizioso, come sulla ruota del criceto, in continuo, costante e regolare movimento. Sempre quello, tutti i giorni. 

Avete mai provato a chiedere a queste persone: “tu come stai?”

Si apre e libera un vaso troppo pieno, una diga che sta per cedere.

Bhe io l’ho fatto, me lo sono chiesta. 

Affrontando con costanza e determinazione tutta l’acqua che c’era all’interno della mia diga colma. All’inizio sembrava di voler svuotare il mare con un colapasta, ma piano piano, un passo alla volta, tutto ha ripreso a scorrere.

Penso sempre, spesso, ai colleghi ai medici, agli infermieri, al personale paramedico e ausiliario che ancora annaspa nella diga. Quelli costretti, per non annegare, a cambiare lavoro, a cambiare vita e anche città, perché la propria diga, troppo piena, non può accogliere l’acqua di altri fiumi.

Penso che non avrei potuto più occuparmi degli altri, se non avessi pulito il mio dolore, la mia paura, la mia stanchezza.

Non posso e non voglio pensare, che qualcuno sia stato lasciato là, in quel buio che spegne ogni cosa, ma soprattutto spegne TE.

Lo so, noi siamo quelli che sono rimasti, a rischiare la propria vita per salvare quella degli altri, e ci meritiamo che qualcuno ci tenda la mano. A me non è successo. IO ho alzato la mano, IO ho chiesto aiuto!.

Ho pensato che fosse MIA RESPONSABILITA’ occuparmi della cosa senza la quale non potrei essere qui, adesso, a scrivere quello che sto scrivendo, ME STESSA.

Capendo e vivendo quanto questo potesse essere trasformativo e rigenerativo ho deciso di farlo per gli altri, mi sono formata e ancora mi formo per fare questo, aiutare le persone a ritrovarsi, a ripartire.

Lo faccio in Antsy perché anzi rimette le persone al centro, il team Antsy non inizia mai un incontro senza chiedere: “ma TU, come stai?”

Ricordo quando non riuscivo più ad aiutare perché non sapevo come aiutare me stessa. Ricordo la sofferenza dei pensieri:

  • ma com’è possibile che ho sbagliato tutto nella vita?” 
  • “come è possibile che dopo 30 anni di studi io non voglia più fare questa cosa?” 
  • “com’è possibile che pur occupandomi di cura non riesco a sopportare i pazienti”. 
  • “come può venirmi questa angoscia quando devo rientrare al lavoro, se è il lavoro che ho tanto voluto?”
  • “come è possibile, che non riesca neanche più a gioire delle cose che prima mi davano conforto?”
  • “com’è possibile, che dopo tutto questo anche le mie relazioni stanno andando male?”

Credo siano ancora tanti quelli che ancora oggi nuotano nella diga, a loro chiedo di provare a partire dal “come stai?” e cercare professionisti che ti aiutino a trovare la risposta.

Noi di Antsy siamo qui, alza la mano e chiedi: “ma io, come sto?”

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